Domenico Montalto - VITO VACCARO

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Fra verismo e classicismo.
Accademia e modernità nell’opera di Vito Vaccaro

di Domenico Montalto


A quasi cinquant’anni dalla morte di Vito Vaccaro, la sua opera mancava ancora di una lettura d’assieme. La presente monografia vede la luce non tanto o non solo per ragioni commemorative, di circostanza, quanto per colmare sia pur in ritardo quella lacuna di conoscenze che aveva sinora impedito di valutare sin otticamente e adeguatamente la figura di un artista singolare, ricettivo, aggiornato, di sommo mestiere, la cui produzione è anche uno spaccato della cultura figurativa italiana fra le due guerre mondiali e – ancor più – a cavallo fra i due secoli.
Tale serena rivendicazione nasce dall’analisi e dall’accertamento obiettivo dei fatti e dei valori in campo, che sorprenderanno positivamente il lettore e che autorizzano ad annoverare Vaccaro fra i maestri di prima schiera nell’ambito della corrente pittorica, ma più latamente culturale, del verismo italiano del tardo Ottocento, in modo elettivo nella sua versione meridionalista. L’opera di Vaccaro va infatti interpretata in relazione all’esperienza e alla lezione di artisti del Sud Italia come Filippo Palizzi, Giuseppe De Nittis, Francesco Paolo Michetti, Michele Cammarano, Vincenzo Gemito, che seppero intercettare le epocali novità del moderno tramite una poetica figurativa caratterizzata da un attento studio della realtà e da una ricerca del vero sentita come suggerimento di genere ma anche e
soprattutto come scelta etica.
La personalità di Vaccaro risulta decisamente orientata verso quella che Luigi Capuana, uno dei padri della letteratura verista, chiamò “poetica del vero”. Anche l’ambiente in cui egli si forma come giovane artista – la natia Palermo dei primi due decenni del Novecento – era allora immersa nel clima culturale del verismo meridionale, quello della Sicilia descritta nelle pagine dello stesso Luigi Capuana, di Giovanni Verga, di Federico De Roberto; della Napoli di Salvatore di Giacomo e di Matilde Serao; della Sardegna di Grazia Deledda; in analogia a quanto avveniva in campo musicale col melodramma di Leoncavallo. Ritroviamo costante nell’opera matura di Vaccaro l’interesse non a soggetti “aulici” ma piuttosto alla realtà ordinaria della vita, al mondo del popolo, dell’infanzia, degli animali, guardato senza atteggiamenti pietistici ma con partecipazione e compassione autentica.
Tale coinvolgimento d’animo e di sentimento, sempre apprezzabile all’esame dei suoi lavori, dalle memorabili sculture alla prolungata stagione della pittura, discosta e distingue Vaccaro rispetto a quel “principio dell’impersonalità” teorizzato dal verismo, assegnandogli una nicchia particolare nell’ambito di un filone culturale che, dall’unità d’Italia fino alla metà del XX secolo, interessò varie generazioni di artisti.
Scuola napoletana e scuola palermitana sono perciò l’ambito ideale in cui Vito, ragazzo irrequieto dal talento chiarissimo (era nato il 15 aprile 1887), comincia la propria formazione intraprendendo quell’avventura artistica che, dopo la parentesi della prima guerra mondiale, lo porterà ad affermarsi a Milano, esattamente com’era accaduto alcuni anni prima a un suo illustre conterraneo, lo scrittore Giovanni Verga. Ciò premesso, constatiamo che gli esordi giovanili di Vaccaro lo vedono operare nell’ambito pressoché (anche se non del tutto) esclusivo della scultura: è principalmente l’arte plastica che lo fa subito apprezzare nel milieu artistico palermitano, come attestano fonti, cronache e documenti dell’epoca. Dopo aver frequentato – vincitore di una borsa di studio – l’Accademia di Belle Arti, dov’è allievo dello scultore accademico Mario Rutelli (1859-1941), autore in città di numerosi monumenti pubblici improntati alla retorica postrisorgimentale e unitaria, Vaccaro riceve nell’ottobre 1913 al Teatro Massimo un primo significativo riconoscimento: risulta infatti primo classificato al concorso dell’Istituto di Belle Arti. Nell’occasione, una recensione del “Giornale di Sicilia” così scrive: “Grazioso un gesso del Vaccaro, Bimbo che ride”. L’anno seguente, il 28 febbraio, sempre al Teatro Massimo, gli viene conferita da parte dell’Associazione nazionale insegnanti di disegno, la medaglia d’argento “per le sue opere di scultura”, come recita la motivazione ufficiale redatta dalla commissione, formata dal fior fiore dei docenti di allora. A questa data, le opere dell’artista, che può fregiarsi del titolo di “professore”, denotano le virtù peculiari dello scultore di razza: disegno fermo e consapevole, modellato sorvegliato e delizioso, in piena consonanza di soggetti col sentire verista.
Il periodo della Grande Guerra, che Vaccaro combatte col grado di tenente sul fronte italiano in Serbia, risulta povero di notizie. Rimpatriato, l’artista si trasferisce a Milano nel 1920, per proseguirvi la carriera di scultore e di insegnante, prendendo studio in un ampio locale al piano terra di Largo Treves 2, nel quartiere di Brera. Già nel 1919, però, aveva esposto in una personale alla Vinciana, importante galleria milanese. Per la vicenda personale di Vaccaro l’approdo nella metropoli lombarda segna una svolta cruciale, marca l’inizio di una lunga fortuna critica e professionale. Gli anni Venti sono per lui fecondi di soddisfazioni.
Vaccaro frequenta l’ambiente artistico milanese, conosce i maestri del momento, partecipa a concorsi, espone più volte alla Reale Accademia braidense, alla Famiglia Artistica e in città capitali dell’arte come Venezia (dove partecipa alla XV Esposizione Internazionale d’Arte, invitato da una giuria presieduta fra gli altri dai grandi scultori Leonardo Bistolfi e Libero Andreotti), Torino, Roma, dove nel 1923 può esporre “per distinti meriti” la sua opera Il filosofo alla Seconda Esposizione Internazionale di Belle Arti. Nel mondo delle Belle Arti italiane di questo periodo, il ruolo di Vaccaro è senz’altro quello di una personalità in vista, aperta alle novità dell’attualità ma essenzialmente legata all’inconfondibile matrice meridionale e di fine Ottocento. A questo riguardo, illuminante è un articolo senza firma del quotidiano “Il Secolo” in data 2 febbraio 1923, in margine a una seconda personale dell’artista alla Vinciana: “Agli occhi sempre un po’ indifferenti e sospettosi della critica, i bronzetti dello scultore Vito Vaccaro possono apparire, a prima vista, pei piacenti soggetti e la manierosa maniera, come una modesta derivazione, in ritardo, di quella piccola scultura napoletana che ebbe in Gemito e in Amendola i suoi insuperabili campioni, cioè una opportunistica ripresa per solleticare il sempre facile gusto del pubblico. Ci viene detto, invece, trattarsi del sincero, volenteroso sforzo d’un giovane artista siciliano stabilitosi nella nostra città come insegnante… e allora ciò che poteva parere una pecca, anzi un peccato, diventa, se non un merito personale, una spontanea caratteristica”.
Gli anni Venti e Trenta segnano l’apice di Vaccaro quale artista plastico: le sue sculture, caratterizzate da grande finezza di eseguito e da intenso sentimento, vengono accolte – a Milano e ovunque – con consenso e stima. Nel 1922, l’opera Bimbo che ride, memore dei modi del realismo d’età classica romana, viene citata addirittura da la “Revue Moderne Illustrée” di Parigi, che nella circostanza scrive: “Vito Vaccaro è soprattutto l’interprete della infanzia, e laddove dà il meglio di sé stesso, è in opere fini e deliziose come Bimbo che ride”. Giudizio pienamente confermato da varie opere plastiche di quel periodo come Il ghiottone (bronzo, 1920), Innocenza (meraviglioso marmo del 1921), la Portatrice d’uva (bronzo, 1923), Bimba con cerchio (bronzo, 1925), Bambino al mare (gesso dello stesso anno), la dolente Seconda maternità (bronzo, 1926), L’offerta (bronzo, 1928): una ravvicinatissima suite di piccoli capolavori in cui Vaccaro dimostra di maneggiare da padrone – con immagini infantili di somma tenerezza e perfezione, con la cura del modellato e delle superfici – la scultura “di genere”, la lezione “minore” che dall’Ellenismo e dalla tarda antichità giunge fino alla scultura napoletana dell’Ottocento.
La prestigiosa rivista parigina ritorna sull’arte scultorea di Vaccaro nel numero del 30 agosto 1926 in cui, a firma di Clément Morro, si legge: “In Vito Vaccaro vedo nello stesso tempo uno scultore e un disegnatore. Scultore, egli presenta un mestiere potente, forte, più robusto che delicato, più romano che greco; disegnatore, è dotato della medesima solidità, ma con un sentimento più affinato del dettaglio”.
Notevole è un “trittico” bronzeo di tema zoomorfo (La pecora, Il cavallo e Il cane), dalle mirabili patine, eseguito fra il 1930 e il 1938, che documenta la predisposizione di Vaccaro per i soggetti “bassi”, non epici.
Entusiastica è la recensione pubblicata dal giornale siciliano “L’Ora” il 12 dicembre 1928 in occasione della personale del conterraneo Vaccaro alla Galleria Geri di Milano. Nell’articolo, infatti, si legge: “Una grande sala di questa Galleria ospita le opere di un nostro scultore: Vito Vaccaro. Egli ha esposto sculture in bronzo e in marmo, disegni a carbone, pastelli in bianco, sanguigne, etc. Il Vaccaro si rivela anzitutto un fortissimo disegnatore e un artista originale. Nel Vaccaro si riscontrano insieme le doti dello scultore e del disegnatore. Nei suoi lavori non v’è traccia d’impressionismo: v’è uno studio accurato del nudo e dell’anatomia umana.
Egli, oltre a questa conoscenza, acquisita con lungo studio e grande amore, unisce una rara acutezza di penetrazione ed una robusta genialità di concezione.
Vigoroso il bronzo del Montanaro siciliano, dove risaltano le pieghe del mantello nelle varie parti del corpo che seguono e ricoprono; vivo, parlante il Bimbo che ride; indovinatissima nella posa e nella espressione naturalissima, la donna che guarda i Vecchi ricordi”.
Meno pittoricistiche e più levigate, ma sempre comunque vivide sono alcune figure che confermano Vaccaro quale maestro della fisiognomica e della rappresentazione dei sentimenti: il concentrato e piacente Volto di donna (bronzo del 1920), la Testa di vecchia (gesso del 1921, frontale come un’erma antica), il Pensiero lontano (gesso datato 1925, dove la giovane modella ci appare mesta e assorta),
Civetteria (gesso, 1930, magistrale e misurato nel ritrarre una ragazza nuda allo specchio).
La critica coeva riconosce quindi unanimemente in Vaccaro franchezza d’intenzioni accompagnata però da una solida conoscenza e cultura dello storico retaggio della scultura italiana che va dall’età antica al Rinascimento, dal bozzettismo ottocentesco ai Valori plastici.
Esemplare è la mostra tenuta da Vaccaro nell’inverno 1924 presso il Salone Municipale di Gallarate, il cui catalogo illustra due stupende opere in bronzo quali Girotondo e Maternità, scrivendo: “In un fervore di tenace e quasi ininterrotto lavoro, la silenziosa attività di Vito Vaccaro si è imposta. Dall’isola dove mosse i primi passi, dove lo studio del vero e il confronto con l’Arte degli antichi si alternarono al pensiero rivolto all’avvenire, nella ricerca di vie inesplorate, la personalità dell’artista s’è andata affermando largamente, in virtù principalmente della sua sincerità d’espressione. Nella mostra gallaratese lo troviamo quest’anno con cinque opere tutte degne d’attenzione, concepite in uno spirito ben alto. In Maternità e Girotondo vi è un misto di sentimento e di tenerezza che parlano insieme allo spirito e alla sensibilità. Una vita intensa promana da quelle e dalle altre figure, nelle quali l’artista applica la sua tecnica semplice e robusta che già ebbe a colpirci”.
Sempre nel 1924 Vaccaro realizza a Milano due opere scultoree di destinazione pubblica, ovvero lapidi commemorative degli alunni caduti in guerra, collocate nella scuole “Cesare Correnti” e “Paolo Frisi”, istituto dove egli insegna: qui, un resoconto ufficiale ricorda che “La lapide, in marmo di Carrara, con caratteri romani e decorazioni scolpite, è un pregevole lavoro ideato ed eseguito dal prof. VitoVaccaro, ordinario di disegno”.
A queste opere, tutt’ora visibili in loco, si affiancano negli anni a seguire varie realizzazioni scultoree di carattere cimiteriale, progettate per il Cimitero Monumentale di Milano, vera e propria “città dei morti” che fu anche laboratorio della scultura italiana del XX secolo. Si tratta di opere in cui Vaccaro denota un’assimilazione libera e originale degli stilemi novecenteschi, dal simbolismo al classicismo anni Trenta, un complesso retaggio culturale evidente nel Cristo bronzeo, in una stupenda figura allegorica femminile (una fanciulla recante una lucerna e raffigurante l’amore coniugale), dalla raffinatissima esecuzione, nella monumentale e solenne Pietà eseguita per il sepolcro della famiglia Dal Molin, così ricordata, nel 1929, sulle pagine del settimanale “Lo scultore e il marmo”: “La tomba Dal Molin in granito e bronzo di Vito Vaccaro il quale ispirandosi al dramma del Golgota ne ha composto la scena culminante dicendo il dolore della Madonna e del Cristo con commozione”.
Il biennio 1925-26 segna presumibilmente l’esordio della stagione pittorica di Vaccaro, il quale – sospinto anche dall’attività didattica di docente – si dedica per tre decenni, praticamente sino alla fine della vita (l’ultima opera datata conosciuta è del 1957, La chiesa di Sant’Angelo a Milano) ai filoni tematici propri della tradizione da cavalletto: ritratti, figure, nudi, nature morte, paesaggi e vedute, in special modo di Milano. Una copiosa produzione ampiamente documentabile appunto a partire dal 1926 col dipinto Il Naviglio a San Marco, che mostra i luoghi adiacenti lo studio con una stesura liquida, vivida, fresca, quasi impressionistica, in una tavolozza dai toni chiari, delicati, luminosi. Del 1930 sono due bellissimi pastelli in bianco su foglio nero, che confermano l’attenzione verista di Vaccaro alla realtà e al mondo degli umili: Vecchio in preghiera e Vecchio pensoso, in cui il medesimo modello senile viene ritratto a mezzo busto in posture leggermente diverse, ma entrambe improntate a un sentito patetismo. Successivamente, al 1932 risalgono due vedute della città natale: La cupola della chiesa di Casa Professa nonché San Giovanni degli Eremiti, entrambe caratterizzate da una virtuosa concisione di mezzi pittorici, dal pennellare esatto e deciso; qualità ritrovabili in Riflessi al porto (1933), quadro ricco di controluci e, nell’analogo Tramonto siciliano (1936), prezioso di rosate tonalità serotine.
Databile al 1938 è un evidente bellissimo pendant formato da due olii intitolati rispettivamente Vecchio gentiluomo e Pensando, raffiguranti la medesima canuta e barbuta persona anziana, ritratta in sapienti controluce caravaggeschi, in pose che esprimono la solitudine, la melanconia e la stanchezza della vita al suo vespro.
Tutta questa produzione a olio e acquerello di Vaccaro consta di quadri di medio o piccolo formato, connotati da una gestualità veloce, sommaria, fluida, vibrante, in una materia a volte magra a volte più corposa ma sempre mirando a restituire l’incanto, l’atmosfera, il sentimento intimo del momento. Nel corso degli anni Quaranta compaiono e ricorrono i temi da interno quali la figura in posa e la natura morta, come in Bimba con fiocco, La lettura, Nudo (reso particolare da un trattamento a piccoli tocchi, quasi alla Seurat), L’arancia sbucciata, l’opulenta Natura morta con mele, Brocca e vaso rosso, Natura morta con fiori. Evidenti affinità di ambientazione e di atmosfera presentano Nonna e nipote e Bimba con brocca, entrambi del 1945, una virtuosistica esecuzione che traduce sentimenti di dolce intimità domestica.
Tutti soggetti, questi, che seguitano anche nel volgere degli anni Cinquanta, in pratica nella fase della maturità ultima di Vaccaro, accompagnati però da una preponderante tematica paesaggistica. Innumerevoli sono i dipinti in cui l’artista ritrae la sua amata Milano, qual era prima della grande trasformazione urbanistica postbellica e degli anni del boom economico, fornendo una documentazione che oggi si rivela indispensabile per respirare l’atmosfera meneghina ormai scomparsa.
Angoli di una Milano poetica e familiare, a volte brumosa come in Corso Vittorio Emanuele, dove la mole del Duomo, vista attraverso il vaporoso tremolio atmosferico, ricorda emblematicamente le gigantesche cattedrali di Monet e di Ensor. Ancora l’immagine del Duomo si ripresenta nell’omonimo, piccolo dipinto del 1955 con una scrittura pittorica febbrile e luminosa, in una miriade di minuti tocchi di pennello. Altrettanto partecipati sono soggetti quali Il Naviglio ( 1950), La Martesana all’inizio di via Melchiorre Gioia (dello stesso anno) e Autunno a Villa Simonetta, tre quadretti caratterizzati dalla maniera rapida, dal mirabile virtuosismo.
L’eccezionale personalità di Vaccaro quale vedutista si apprezza in una serie di dipinti en plein air eseguiti sul posto durante le vacanze con la famiglia o le gite fuori porta. Flagrante trittico ligure è formato da quadri come Ombrelloni e vele, Il porto di Santa Margherita Ligure e La spiaggia di Santa Margherita, realizzati fra il 1951 e il 1957, che sono un trionfo di azzurri marini, in una scrittura commossa e alitante, dal ductus spigliato, fuso e soffuso. Ancora la Liguria compare, coi medesimi modi di prima intenzione, ne La passeggiata di Pegli.
Altrettanto mirabili sono i fogli ad acquerello nei quali, oltre alla figura, ricorre il tema dei fiori, che l’artista sente con particolare inclinazione, realizzando vari soggetti (rose, anemoni, peonie etc.) con scrittura liquida e luminosa.
In questi anni, Vaccaro è ormai un artista noto e affermato, e i suoi lavori sono costosi: nel maggio 1945, una sua opera intitolata La Vergine (un aggraziato profilo muliebre del 1935 fuso in bronzo) presentata in una mostra d’arte sacra all’Angelicum di Milano, viene valutata 4000 lire, come si evince da una lettera dell’ufficio vendite all’artista.
Una militanza artistica e pittorica, quella di Vaccaro, conclamata in ambiente milanese da importanti esposizioni personali, come quella tenutasi nel 1951 presso la Galleria Bolzani, fino al declino fisico cominciato nel 1953, quando l’autore (che si spegnerà nel 1960) chiude lo studio rompendo i gessi e distruggendo tutto il materiale inerente la sua storia, salvo i quadri e le opere conservate in famiglia, che formano ora il corpus di questa monografia.
A conclusione di questo excursus, possiamo a ragion veduta affermare che questa riscoperta postuma della figura di Vito Vaccaro – artista versatile, gran disegnatore, scultore di certificabili mezzi, squisito colorista – aggiunge una tessera ragguardevole, dovuta e attesa al mosaico dell’arte italiana del Novecento, svelando le qualità umane ed espressive di un protagonista che merita un proprio posto nella gerarchia valoriale del suo tempo.


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